Opere Grafiche

L’arca felice

di Luciano Falsiroli

Che fare. Non sono un critico d’arte, sono soltanto un vecchio redattore che ha visto sfilare sul suo tavolo di lavoro migliaia di foto, migliaia di disegni. All’inizio provavo imbarazzo, disagio a volte malessere ma col tempo ho capito come si guardano, si giudicano e soprattutto si scelgono.
Da anni la mia terminologia verbale si è però ristretta. Giudicare e scegliere mi hanno lasciato, sono andati anch’essi in pensione. Mi è rimasto lo sguardo. Con il quale intrattengo un magnifico rapporto. Provvede lui a tenermi sveglio. Non si lascia sfuggire quasi nulla e a fine giornata consegna il suo raccolto alla mente. Che archivia il meglio. Così la notte, spesso durante il sonno, rivedo e ritocco le scene migliori.

Dalla riva del torrente dove trascorro gran parte della giornata, perdona la metafora, ho visto all’improvviso passare la tua arca, a pieno carico, colorata e festosa. Sono balzato in piedi. Meritava davvero che le rendessi gli onori. Ho riconosciuto personaggi che tu mi avevi presentato tempo fa e altri che mai avrei pensato potessero uscire dalle mani e dall’animo di un artista. Ma il talento, si sa, dà vita all’imprevedibile.
Il timoniere era nascosto dalla ciurma in festa, che non provava alcun fastidio per i balzi dell’arca sulle onde crestate di bianco, quasi fosse un brindisi di benvenuto all’ospite inatteso. Camminando veloce lungo il sentiero che costeggia il torrente, ho accompagnato per un po’ la tua arca. Confesso che mi sono pure sbracciato per farmi riconoscere. Ho pure detto ciao all’omino volante appeso al suo aquilone dalla bocca spalancata. Sono rimasto in contemplazione della donna dalla immensa chioma blu, punteggiata di stelle, in ginocchio e un po’ appartata, quasi in attesa di un segnale dal cielo. Poi quel gruppo di famiglia seduto su una poltrona portata a spalle, immagino da una figlia, a testimonianza che gli affetti hanno il peso di una nuvola. Ho rivisto il ragazzo che aggrappato a una scala lunghissima vuole addolcire la notte tingendola di azzurro.
Quanti pittori mi sono sfilati davanti agli occhi. Tutti alleati nel dipingere i volti della vita. Ho persino intravisto una galleria di ritratti. Facce intense, scavate, di uomini celebri, che hanno lanciato i loro pensieri in alto e in basso. E poi i ragazzi che scalano gli alberi per frugare fra i rami, alla ricerca di una risposta ai loro primi perché.
E che dire del pianista pazzo che dispensa musica col suo pianoforte sulla  cresta di un’onda gigante, per avvertirci che bastano poche note, anche nei luoghi più solitari, per vincere la tristezza? Ho ancora negli occhi lo strillone che dal suo megafono spara notizie urlanti come lingue di fuoco. In un angolo ho rivisto persino una mia vecchia conoscenza, l’uomo delle paure, che non si accorge della vita… si copre il volto con le mani per tenersi stretti gli incubi che si è scelto come compagni di viaggio. Ho notato, perché in bella evidenza, un libro imponente, copertina nera e senza titolo, affiorare tra i fogli bianchi come la torretta di un sottomarino, che in emersione manda in pezzi un mare di ghiaccio, credo, per rivedere il sole dopo giorni (vissuti) nel buio degli abissi.

Tutte immagini che danzano sull’arca, spingendosi l’una contro l’altra per scrutare meglio la riva a loro sconosciuta. Una festa, cui partecipa in maniera composta anche “il gruppo della solitudine”, tale mi è sembrato, perché in silenzio e immobile. Ho notato una donna trattenere con dolcezza fra le mani la propria testa, quasi l’avesse da poco ritrovata, immagino, dopo esserne stata derubata da un sogno o da un amore incompiuto. Altra figura accanto? Una clessidra in cui lo scorrere della sabbia sta ricomponendo lentamente il mezzo busto di un’identità smarrita. Ci riuscirà?
Il richiamo dell’arca con il suo carico di mistero è ancora forte ma la mia corsa lungo la riva del torrente si sta facendo affannosa. Dovrei desistere. Ma ecco che scorgo nel “gruppo triste” una doppia coppia speciale: un uomo e una donna, entrambi con due volti, uno nell’ombra, l’altro illuminato.
Mi chiedo quale dei due sarà il vincente, se l’ombra o la luce. La scelta dell’artista mi sembra chiara. Chi prevale è l’uomo nel buio. Ha l’occhio acceso, mentre l’altro è una maschera di gesso.
Direi rassegnato, quasi pietrificato dall’infelicità. Fra le “ due donne” emerge invece la forza serena di chi tiene gli occhi aperti: dimostra di conoscere la vita e fa coraggio alla parte di sé che sta soffrendo.
Adesso… Sono stanco e mi siedo sul primo masso che trovo. Ma balzo di scatto in piedi. Ho scoperto che l’arca già lontana sta trascinando un barcone. Con una lunghissima fune. Non me ne ero accorto. Eppure le grida e la compagnia festosa, che sta raccolta, quasi aggrappata, attorno a un pennone lungo al punto di sfiorare una nuvola bassa, mi fanno restare a bocca aperta.
Incredibile! C’è Cappuccetto rosso appena sfuggito al lupo e sotto la protezione di tre scoiattoli felici di scortarlo. Persino un santone dalla liscia barba bianca, ritto come un ufficiale in carriera, seguito da due ghepardi mansueti e da due oche beatamente vigili. Ma chi più mi ha colpito, direi commosso, è la presenza di un gufo imponente, posato su un rametto fra cinque foglie superstiti. Ha lo sguardo di un comandante che giudica sacre le leggi del mare. I suoi occhi non lasciano dubbi.
Sorveglia, protegge, insegna. Sarà lui il nostromo, che guiderà in porto, o meglio in salvo, il giovanissimo equipaggio.
E pensare che la sua stirpe è sempre stata giudicata male, accompagnata da stolti pregiudizi, Fortuna ha voluto che un artista gli abbia reso giustizia. Meriterebbe un nome, anzi un titolo. Sì, chiamiamolo “Maestro”.
Siamo ormai vicini al tramonto. Anche il barcone e i suoi inquilini stanno scomparendo alla mia vista. Penso che ormai siano prossimi all’abbraccio con il grande fiume. Ora l’arca non la vedo più. Mi chiedo dove finiranno tutti quei passeggeri in festa, compresi quelli dalla faccia triste, L’artista non se ne preoccupa.
Sa che non è compito suo inseguire il successo. E a ragione. Ciò che importa è che le sue creature, inventate con semplici tocchi di matita e una goccia di colore, si facciano conoscere. Ci riusciranno. Anzi ci sono già riuscite. Affollano archivi, biblioteche e alcune di loro “frequentano” università straniere. Mi chiedo da dove nasca l’impronta d’arte che si coglie nei suoi personaggi, nelle sue invenzioni. Che caratura essa abbia. Ebbene, escludo che sia soltanto un prodigio della fantasia.
C’è un’anima che guida la mano, un pensiero acuto e profondo che dà i connotati all’immagine e, seppur invisibile, anche un messaggio chiaro in cui l’aquilone, la bimba delle future farfalle, il pianista pazzo, la rosa corteggiata, l’omino dalle paure infinite, il ghepardo tranquillo, il gufo maestro, usano tutti la stessa lingua, appartengono alla stesso mondo.  E tutti insieme ci suggeriscono (insegnano) sottovoce come dovremmo essere.
Che dire ancora? Ecco tornerò presto sulla riva del mio torrente. Ho troppa nostalgia dell’arca.
Prima o poi ripasserà.
l.f. 

Colori senza rete

di Carlo Marcello Conti

Fin da quando ero piccolo in Comelico il circo con il suo mondo, la sua gente, gli animali, i carrozzoni rappresentavano grande interesse per me. Il tendone era un’enorme pezza colorata che una mattina appariva tra i monti con una grande fessura. Una valle tra le valli. Pagavi un biglietto e attraverso quella fessura viaggiavi per il mondo a volte ridendo a volte piangendo con musicanti, cavalieri, domatori, pagliacci e acrobati.

Un giorno restava l’odore dei cavalli, un cerchio di segatura e qualcosa di speciale dentro simile a un brivido scaturito da un acrobata sparito sopra i boschi dopo un triplo salto mortale senza rete.

L’avvitamento a mandorla all’indietro, oltre il salto, sono le specialità di Angelo Ruta quando non disegna.Mi capirete quanto amo questo illustratore. Come una cosa segreta e cara tengo fermi questi suoi disegni da tanto tempo, quasi mi sembrasse di perderli. In un cielo più profondo dell’argento della pioggia. Non c’è arcobaleno capace di restituirmi questi colori. E io sono assente in queste fessure di carta, gli occhi sospesi in alto come palle lanciate dai giocolieri, con i piedi, le mani, le corde.
Un contrabbasso giallo fiancheggia un gallo rosso con cresta da re. L’uomo bambino, il poeta dietro la tenda, si moltiplica da un rattoppo molto curato, blu e rosso; porta una giacca verde e lancia uno sguardo in alto simile alla fascia di un laser o di un cineproiettore nella sala buia.

Niente meglio di tutto questo può darmi quella carica giusta per cercare di restituirvi qualcosa che non sia le solite parole bene. Non una critica. Lasciatemi libero con lui su quelle corde. Un costumino a righe semplice, le braccia tese sopra la testa, se sbagli attimo finisci schiacciato sopra la pagina bianca. Che impresa restituire il fischietto dell’aria che senti passare sulle righe gialle e rosse del costumino.

Che cosa vuoi che contino i colori quassù. Solo perché la gente ti veda meglio, scruti la tua azione, batta le mani. Senza sapere quanto batte il tuo cuore.

Un’onda che raggiunge altezze incredibili sotto il tuo polso teso, sulle braccia tese sul trapezio.

E un’onda d’acqua, di cielo e mare blu, più alta ancora, è quella dove un angelo con un frac a scacchi accorda un piano scompigliando ogni foglio. Impossibile spartito nell’aria. Così fina, così in alto.

Ragazzo mio, ho imparato così presto a stare in equilibrio sulla lingua colorata che sporge dalla bocca di sette puntini. La palla blu che scorre all’altezza della palla dell’occhio, vigilato da pagliacci sui miei piedi, non è goccia dell’onda su cui accordo le note che il mondo ruzzola su queste punte, mentre un flauto che abita tra i capelli distrae ad altre altezze queste spigolosità con piccoli triangoli volanti e rossi.

Che spettacolo restare in basso con la mano sugli occhi tesi verso l’alto; stare qui con una camiciola blu e pantaloncini bianchi, con un compagno che porge da una zona d’ombra, come da un riflesso, un pallone gonfiabile a spicchi colorati. Gonfiabile forse il pallone dirigibile da viaggio per questo mondo in quattro pagine con un oblò per affacciarsi con occhiali da aviatore e sciarpetta svolazzante attorno al collo, e tu mi guardi da uno sportello aperto sul rosso di questo nuovo urbanesimo di volalcinema, con la testa ruotata in su a trecentosessanta gradi, da contorsionista orientale.

Una virgola dentro un quadrato lascia intendere che il discorso continua, potrebbe continuare all’infinito di questo pallone attraversato da un nastro azzurro di voli e infine nella sua ultima porzione di quadratino scatenante virgolette ribaltate, ormai nuvole che fanno pensare a punti interrogativi. Ma nel mondo degli acrobati tutto è permesso perché tutto non è mai visto dalla stessa posizione. Ed io, da quel Comelico bambino che mi è rimasto dentro come un tendone, ringrazio questo protagonista che miracolosamente, non solo con la matita, eRuta Angeli del colore per tutti noi.

(ZETA NEWS – rivista internazionale di poesia e ricerche anno XVII n. 45/46)