Rassegna Stampa “Animali felici”

 Animali felici

 Lorenzo Pellizzari
 Cineforum n. 385

 

In una Milano da tardi anni ’90, priva di monumenti ma affollata di traffico e di traffici, vivono “animali felici”. Non quelli cui allude una battuta del film (allevati in modo ruspante, liberi di cercarsi il cibo e la copula, infine soppressi per l’inevitabile consumo altrui ma solo con metodi indolori, da cui le loro carni più tenere e gradevoli), bensì i loro omologhi umani, che si nutrono in liberi fast food o in similfastose cene, che copulano allorché (raramente) gli viene il ghiribizzo e che sono destinati a sopprimersi di fatto o in senso lato quando la vita decide per loro. In questo recinto urbano si intrecciano le vicende di una madre impiegata con figlio ladruncolo, di un’amica farmacista con bambina stressata e marito separato, di un chirurgo plastico con moglie assillante e indecisa, di un consulente finanziario con giovane amante (attiva nel suo ufficio, lo stesso ove lavora la madre di cui sopra), di un senegalese afflitto dal mal di denti e venditore ambulante di fiori di provenienza furtiva, di un bambino africano che sfugge alla rete delle adozioni rifugiandosi su un albero, del marito separato che cerca una propria identità e alla fine la ottiene ma solo grazie a uno scambio pirandelliano. Più un contorno di giovani sbandati, di ragazze petulanti, di cittadini poco civici e di esemplari sparsi di fauna metropolitana.

Girare con 700 milioni (niente finanziamento pubblico), 2l giorni e 6 ore di riprese, location in esterni naturali (metà diurni e metà notturni) e in interni dal vero un film di 85 minuti senza un plot tradizionale ma con un senso della composizione che non fa una grinza (a parte qualche considerazione in margine) è una bella scommessa per il trentenne Angelo Ruta, la sua omogenea troupe di attori e i suoi affiatatissimi collaboratori tecnici. Il premio, oltre alla partecipazione (come di regola) a un po’ di festival minori o minimi, è una settimana di programmazione in una multisala milanese periferica e un’affettuosa anteprima per la stampa locale. Il resto – eco sui giornali che contano, attenzione delle riviste specializzate, distribuzione meno occasionale – è un miraggio comune a molti altri prodotti più che degni e spesso destinati invece a godere soltanto di una schedina sugli annuari del nostro cinema.
Cominciamo dal timido e (almeno per il momento) disarmato più che disarmante autore (ma occorre sapere che lavora anche come saltimbanco al Circo Medrano ed è uno specialista fuor di metafora del triplo salto mortale). Al primo lungometraggio fa precedere un corto, “Gli occhi aperti” (vincitore del concorso Spazio Italia al Torino Film Festival del l996) che, rivisto oggi, appare il giusto e pregevole incipit del suo attuale lavoro. Una piccola troupe televisiva italiana inscena un falso servizio a effetto nella Bosnia dilaniata dalla guerra civile, con contorno di affaristi locali, traumi da eccidio, stupri etnici simulati e apparizioni miracolose, ma il cinismo dei videomaker viene mortalmente fermato da una “Madonna” armata di P38 e propensa alla spoliazione delle sue vittime. C’è di che meditare su tanta tv che vediamo.

La premessa vale il seguito. “Animali felici” non è un lungometraggio del tutto compiuto, forse proprio per la necessità “commerciale” di raggiungere il metraggio lungo. Sfoltito di una dozzina di minuti di esitazioni descrittive o di iterazioni di movimenti (o, ancor meglio, riempito dello sviluppo di alcune storie individuali) avrebbe attinto una dimensione maggiormente aurea. Risente inoltre di un andamento un po’ troppo omologante delle varie vicende e dei rispettivi interpreti, che assumono tutti un ritmo (da balletto) più voluto dal regista che imposto dalle singole situazioni. Ma ha stile, come può averlo un film quasi tutto basato su primi piani (girati con movimenti di macchina, non contrapposti a posteriori, il che è anche un bel tour de force per gli attori, tutti d’intonazione lombarda) e su obiettivi a lunga focale; che non indugia narcisisticamente sui dettagli dell’ambientazione; che non indulge agli effetti emotivi e quasi mai ricorre a colpi di scena perchè il vero coup de thèatre è il coinvolgimento dello spettatore: si entra nella storia per semplice curiosità, ci si appassiona ai suoi vari sviluppi, si prova soprattutto un senso di disagio che assomiglia ben presto a un senso di vergogna, come se quegli uomini e quelle donne li conoscessimo bene, ruotassero intorno a noi e forse somigliassero un po’ a noi stessi.

Ruta dichiara di amare Amelio e Virzì, ma soprattutto Tarkovskij. In tutti e tre i casi per sua personale fortuna, non v’è traccia di influenze dirette, che possono tutt’al più essere ritrovate in un cinema alla milanese (l’asettico Soldini de “L’aria serena dell’Ovest, ma meglio ancora il clairiano e purtroppo dimenticato “Come dire…” di Gianluca Fumagalli) o addirittura, viste certe assonanze anche musicali, in certo Kusturica o, sul versante opposto, in certo Lelouch. Maggiormente il regista non si espone, specie per quanto riguarda aspetti etici e politici, se non effettuando il rituale richiamo alla ormai superata “Milano da bere” di craxiana memoria.
Invece si può trovare di più. Da un lato la condanna del cinismo quotidiano, delle piccole viltà, dell’indifferenza, dell’enfasi programmata, dell’estraneazione dal vissuto o della sua edificazione a modello di non vita. Dall’altro la dissoluzione del tessuto ideologico in una società multietnica non per propria scelta e interclassista ma solo per questioni di comoda apparenza. In questo contesto contano le sembianze (dal semplice look all’intervento estetico), le speculazioni finanziarie, le regole del gioco che escludono i diversi, ma anche una microcriminalità che accomuna esecutori e vittime (pronte le seconde ad applicare gli stessi criteri persecutori dei primi). Contano infine, liberatorie ma ugualmente perniciose, le follie individuali (assistere un ragazzo in coma credendo sia il proprio figlio e ritrovarsi infine in quella vera situazione, sbarazzarsi del corpo di un ladruncolo presunto agonizzante e poi subirne la vendetta, sottoporsi a un tentativo di suicidio per gas che viene sventato in modo surreale).
Storie di cronaca cittadina, abitualmente confinate in qualche trafiletto nelle pagine locali (blocco di ascensore, furto di auto, incidente stradale), ma segnali forti di un disagio di cui Ruta, volente o nolente, si fa interprete, insieme ironico e umorale, distaccato e partecipe, complice e smaliziato. Ma anche storie di un puzzle di cui occorre individuare l’impianto e dove è più difficile, perchè non obbligatorio, raggiungere la soluzione. Pare di divertirsi e solo in un secondo tempo ci si accorge di aver riflettuto. Anche sulla base della constatazione che l’intera èquipe dimostra di credere in quello che ha fatto, un po’ buttandosi nella mischia, un po’ aleggiando sui trampoli come i due artisti da strada che danzano nel finale su un prato del Parco Lambro mentre un nuovo “barbone” esprime la propria incosciente gioia.

 

Storie, disagi e incontri. Un giorno a Milano con gli “Animali felici”

Filo conduttore del film una metropoli distratta popolata da personaggi ironici e spesso disillusi.
Mario Serenellini
La Repubblica 27/5/1999

Animali felici, secondo la filosofia e il brevetto di allevatori “democratici”, dunque molto funzionali al consumo, sono definiti, nel settore, quei capi di bestiame destinati alla nostra tavola che sono stati messi in condizione di trascorrere il preambolo al macello in un eden agreste di illusoria libertà alimentare e riproduttiva, dove il trapasso all’aldilà del supermarket è confortato dal pio silenziatore e dalla scelta di ore notturne, in cui, hegelianamente, tutte le vacche sono nere. Animali felici sono anche, con velata metafora, i protagonisti del campionario urbano di cui è fatto il lungometraggio d’esordio di Angelo Ruta, da oggi al 2 giugno in prima allo Splendor di viale Gran Sasso, distribuito e prodotto dal milanese Digital Group con il titolo, inevitabilmente, di Animali felici.

È un film ambientato a Milano – spiega il giovane regista, nato 32 anni fa a Ragusa ma di formazione tutta lombarda (Brera, Illustrazione & Fumetto del Castello Sforzesco, CFP per la tecnica televisiva), attivo, in alternanza, tra illustrazione editoriale e grande schermo. Nell’arco d’una sola giornata, si sviluppano e si incrociano storie e personaggi, con incontri fortuiti e fatali. Filo conduttore, in una metropoli distratta ed egoista, è il comune senso di disagio, una disparità sempre più consapevole tra la vita e l’habitat, tra l’uomo e la città. Popolato di interpreti d’area milanese, come Pia Engleberth (formatasi alla scuola del Piccolo, resa popolare dal trio delle Sorelle Sister), Adriana Libretti (vista in Fuori dal mondo di Piccioni), Roberto Anglisani (uscito dall’Elfo), Animali felici è un allevamento metropolitano, rumoroso, caotico, cinico, intreccio disumanizzato di percorsi finali di rinuncia, di identità scambiate e, persino, di morte.

Presentato con successo, nella sezione degli Indipendenti Italiani (dove figurava anche l’eccellente “Tre storie”, uscito dal laboratorio di Olmi, premiato ad Annecy) al XVI Torino Film Festival, Animali felici è la promessa mantenuta d’un autore che proprio a Torino, nel ’96, aveva vinto, con il corto “Gli occhi aperti”, il trofeo Kodak, consistente in un bel numero di metri di pellicola: quelli che sono serviti per dar coraggio, e supporto concreto, al nuovo film, ironica, disillusa panoramica sulla Milano “ex da bere”, recinto di finto benessere e d’illusoria libertà, i cui confini sono appena meno evidenti di quelli in cui pascolano animali probabilmente, e ufficialmente, infelici.

 

Il destino degli “animali felici” nell’egoismo della città

Maurizio Porro
Il Corriere della Sera 27/5/1999

 

Da oggi, per una settimana, il cinema Splendor ospita “Animali felici”, uníopera prima e originale di Angelo Ruta che nasce da un fortunato corto premiato a Torino. “Un film – dice l’autore – nato in modo rocambolesco, girato a Milano e prodotto senza soldi pubblici, con 700 milioni e 2l giorni e 6 ore di lavorazione”. Eppure, se vi capita, andatelo a vedere, ci sono le premesse per un cinema che torni ad essere la morale della società. Nell’intrecciare alcuni destini tipicamente metropolitani – esistono un cinismo, una solitudine, una boria alla milanese – il regista, che a volte è impegnato anche come saltimbanco al circo Medrano, specializzato nel triplo salto mortale senza rete, riesce a esprimere il disamore verso un certo “consumismo” sentimentale, verso l’egoismo di una città rimasta un po’ sempre “da bere”. Sebbene un po’ schematico nella divisione, di qua i buoni, di là i cattivi, di qua gli integrati, di là gli immigrati, il ragusano Ruta ha la mano molto felice nella descrizione dei caratteri, tutti molto verosimili e incastrati in un puzzle variopinto e alla moda in cui alla fine solo uno, con esborso di simbolismo circense, riuscirà a ritrovare la libertà con una falsa identità alla Antonioni. Nel super-io cinematografico del giovane, è evidente il fantasma di Kusturica, citato attraverso i pesci, e del suo musico ex di fiducia, Bregovic. E il titolo è anche quello una metafora: gli animali felici sono quelli lasciati liberi di giorno, ma uccisi a tradimento di notte.

 

Animali felici di Angelo Ruta

Roberto Farina
Cinemasessanta n. 238

 

Animali felici è nella finzione, il marchio ideato da alcuni allevatori che, convinti di garantire così una migliore qualità delle carni, forniscono ai loro capi di bestiame una perfetta illusione di libertà, lasciandoli mangiare e riprodursi in completa autonomia, finchè non vengono fulminati con il silenziatore, di notte, perchè non se ne accorgano.
“Animali felici” è anche un piccolo film di un regista trentenne quasi esordiente, ma che ha già fatto parlare di sé al Festival di Torino dove, nel ’96, il suo cortometraggio Gli occhi aperti ha conquistato il primo premio.
“Animali felici”, piccolo film per durata (85 minuti) e per discrezione, è tuttavia una tra !e cose migliori e di maggior speranza per la cinematografia nazionale viste a Milano al MIFED dello scorso novembre. È un film difficile da raccontare, costituito com’è di quadretti, situazioni, incontri e scambi che compongono il ritratto di una giornata qualsiasi di un piccolo gruppo di persone qualsiasi, legate fra loro da relazioni più o meno fortuite.

Milena ha perso le tracce del figlio; lo crede in coma all’ospedale, lo assiste giorno e notte e scopre poi di essersi quasi irreversibilmente affezionata a un perfetto estraneo. Il suo “principale”, Marco, investe un ragazzo in motorino e lo abbandona in una discarica per evitare qualsiasi tipo di noia. Il chirurgo dell’ospedale è ostacolato nelle sue ambizioni da una moglie che mal reagisce agli effetti dell’avanzare degli anni.

Angelo Ruta descrive così una città fredda, frenetica, dove gli unici rapporti possibili sono fatui, dominati dal caso, e i discorsi sono superficiali fino a dare fastidio. Mette in scena tante piccole storie slegate, microcosmi impenetrabili, di cui l’unico denominatore comune sembra essere l’alienazione, che colpisce perfino i più giovani, come la bimba di Lorenzo che rifiuta di uscire col padre perchè “stressata da tutte le cose che [deve] fare”. Gli individui si muovono come tante pedine sulla scacchiera del destino, che intreccia, beffardo, le loro vite in una sorta di ecosistema in cui gli atti e i comportamenti di ognuno influiscono inesorabilmente sulle esistenze di tutti. E così ci si accorge che la libertà, mito per eccellenza del nostro tempo, non è in realtà che un recinto, i cui paletti sono solo un po’ meno evidenti, proprio come quelli in cui pascolano gli “animali felici”.

Angelo Ruta ha a tratti il piglio del miglior Kusturica, di cui riprende anche il sound vagamente zingaresco. È dotato di un acuto spirito di osservazione, che gli permette di restituire la realtà quotidiana trasfigurata sotto le spoglie di un’ironia sottile che giunge a sfiorare il sarcasmo, quando si tinge di nero, in un gustoso equilibrio tra tragedia e grottesco. Ne scaturisce un film che stimola una riflessione sul nostro modo di vita, in cui il paradosso e l’irrazionale sono stati normalizzati dall’abitudine. L’ha ben capito il giovane immigrato africano che, venuto, appunto, da fuori, costituisce l’unico elemento ancora non contaminato e capace di riflettere e far riflettere sui meccanismi perversi di una società malata, impostata su regole e su comportamenti assurdi. E l’ha capito Lorenzo che, in un impeto di lucidità o di disgusto, scambia, nel finale, la sua identità con quella di un poveraccio morto nel parco, rompendo così la metaforica pesciera di vetro del titolo inglese del film (Fishbowl) che, come tutti, lo racchiudeva nelle concentriche giravolte di un’esistenza senza vie d’uscita. Per correre, finalmente, tra acrobati e ballerini e mille altre creature colorate e fantastiche della sua nuova, conquistata libertà.